STEP’ANAKERT – Al primo piano una banca d’investimenti, al secondo locali commerciali, al terzo e al quarto una sala conferenze e 32 suite, nove di lusso e una presidenziale. «È questa l’unica Euro...

Estero postato da paolorossi || 11 anni fa

STEP’ANAKERT – Al primo piano una banca d’investimenti, al secondo locali commerciali, al terzo e al quarto una sala conferenze e 32 suite, nove di lusso e una presidenziale. «È questa l’unica Europa che conosciamo», sostiene Haik con distacco, mentre con un cenno mi indica l’Hotel Europa, il business center inaugurato lo scorso maggio in una delle vie principali di Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabakh. Davanti ai vetri blu cobalto del nuovo complesso, costato 5,5 milioni di dollari, uno striscione afferma in inglese «Non c’è alternativa all’indipendenza», mentre lungo il viale, intitolato ai Combattenti per la libertà, la città sfoggia a ogni lampione un gagliardetto nazionale. «Le celebrazioni per il 20° anniversario della dichiarazione d’indipendenza si stanno per concludere», spiega Haik, che poi aggiunge: «È stata una conquista importante, ma oggi il Nagorno Karabakh non può vivere solo di slogan».

Proclamata il 2 settembre 1991, la Repubblica del Nagorno Karabakh è uno stato de factonon riconosciuto dalla comunità internazionale (con l’eccezione di Abkhazia, Ossezia del Sud e Transnistria, che a loro volta però vantano solo una parziale legittimazione). Il cessate il fuoco siglato con l’Azerbaigian nel maggio 1994 ha congelato lo scontro militare con Baku, ma non ha portato alla firma di un trattato di pace, lasciando così irrisolto il conflitto tra i due Paesi. Una situazione né di guerra né di pace, che è al centro dei negoziati portati avanti dal Gruppo di Minsk dell’Ocse. Così il Nagorno Karabakh oggi è «riconosciuto come Stato non riconosciuto», come puntualizza con garbo Larisa Alaverdyan, direttrice dell’Istituto di Scienze politiche e Legge all’Università russo-armena di Yerevan.

Hayk Khanumyan ha 28 anni, ed è il direttore dell’European Movement in Artsakh, una Ong che cura progetti di scambio internazionali tra l’Università di Stepanakert e le principali facoltà europee. Artsakh, nell’antichità, era il nome di una delle province del Regno d’Armenia; oggi è l’appellativo con il quale gli Armeni chiamano il territorio del Nagorno Karabakh. «Il mancato riconoscimento – sostiene Haik – limita molto le possibilità di sviluppo del Nagorno Karabakh, specialmente tra le giovani generazioni. Senza la legittimazione internazionale, organizzazioni come le Nazioni Unite, l’Ocse o l’Unione europea non possono aprire uffici sul territorio. Ma ci sono anche altre conseguenze e problemi più pratici, come ad esempio i visti per l’estero che possono essere richiesti solo dietro esibizione di un passaporto armeno».

Anche Diana, moglie di Haik e prossima ad ottenere un dottorato in Lingue, concorda che il problema centrale è il riconoscimento del Nagorno Karabakh. Si sono sposati da pochi giorni e abitano in affitto al quarto piano in un palazzone d’epoca sovietica, non distante dal centro di Stepanakert. Circa un terzo della popolazione risiede nella capitale, che conta ormai più di 50 mila abitanti ed accentra, in base alle statistiche ufficiali del 2010, più del 70% della popolazione urbana del Nagorno Karabakh. Martouni, la seconda città del Paese, ha in confronto meno di un decimo degli abitanti. Durante il conflitto, Stepanakert è stata messa a dura prova dall’artiglieria azera e, al cessate il fuoco, la ricostruzione ha imposto come priorità l’emergenza abitativa, alimentata, negli anni, dalla domanda di nuovi alloggi. Così, mentre poco distante dai nuovi quartieri residenziali si costruiscono ville con colonne e capitelli ionici, i prezzi del mercato immobiliare sono saliti alle stelle: più di mille dollari al metro quadro per un appartamento in centro, una cifra pari alle abitazioni vip nella Northern Avenue di Yerevan. Con la differenza di avere un potere d’acquisto nettamente inferiore. Un insegnante guadagna circa 300 euro al mese, mentre la media mensile dei salari si aggira intorno ai 200 euro a persona. Senza contare la crisi, con i principali indicatori economici (salari, Pil, produzione agricola e industriale) che, nonostante un trend positivo, hanno tutti subito un rallentamento. E con il risparmio pro capite che nel 2010 ha fatto registrare un saldo negativo dello 0,6%.

Alle case, però, non hanno ancora fatto seguito i servizi e nemmeno progetti di sviluppo sociale. A Stepanakert l’amministrazione sta ultimando un nuovo ospedale, un centro sportivo e una nuova cattedrale. Gli Armeni della Diaspora hanno inoltre finanziato università e scuole in tutto il Paese, ma, come fa notare Haik, «negli atenei prevale ancora una mentalità sovietica, mentre ci vorrebbe una nuova atmosfera educativa». Nel Nagorno Karabakh il 52% della popolazione ha un’età compresa tra zero e 30 anni, e per la prima volta una generazione cresciuta senza il conflitto si trova anche a riempire il vuoto creato dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. «Purtroppo però – prosegue Haik – il corpo docente si è formato in prevalenza sotto l’Urss e adotta un sistema che non aiuta gli studenti ad aprirsi e realizzare progetti, a essere innovativi e ad avere il coraggio di prendere un’iniziativa». 

A livello sociale, la guerra ha lasciato un senso di frustrazione per il tempo che è stato sprecato. Dopo la firma dell’armistizio, in Karabakh l’economia ha ripreso vigore, specialmente nel settore minerario. Il sottosuolo è infatti ricco d’oro, diamanti e altri minerali, estratti principalmente dalla Base Metals. Anche la produzione industriale e l’agricoltura sono cresciute, ed investimenti hanno riguardato la telefonia (con la Telekom Karabakh, di proprietà armeno-libanese) e la produzione di energia idroelettrica. Pure il turismo, negli anni, è diventato una preziosa risorsa. Per gli Armeni, in particolare per quelli della Diaspora, il Nagorno Karabakh è ormai una sorta di luogo simbolico: la storia millenaria dei monasteri di Gandzasar e Dadivank, immersi in una natura rigogliosa; le rovine di Tigranakert, i vasti panorami e i piccoli villaggi aggrappati alle montagne. Un idillio, che è stato però pagato a caro prezzo. Sul territorio i segni della guerra rimangono comunque ben visibili, con case distrutte, carcasse di auto e di mezzi militari, bunker e la presenza continua dell’esercito. Per le strade i più anziani vestono ancora casacche mimetiche, che in qualche caso coprono le mutilazioni del corpo. Ci sono poi le ferite nascoste. Dei settemila caduti armeni nei tre anni di conflitto, circa 4.500 erano originari del Nagorno Karabakh. Nelle case, quasi tutte le famiglie venerano la foto di un parente scomparso, e la maggior parte di loro ha vissuto sofferenze difficili da raccontare, che probabilmente sono ancora più complesse da dimenticare.

Nonostante un’economia solida, c’è però una realtà che non traspare dalle statistiche ufficiali. «Lo stato funziona, le istituzioni lavorano, ma la nostra società rimane molto conservatrice – afferma Haik – e difende gli ideali ereditati negli anni da Breznev, inclusa la mancanza di creatività, la passione per la burocrazia e una certa inclinazione alle teorie del complotto. Le classi dirigenti non hanno fiducia nelle nuove generazioni, soprattutto se hanno studiato all’estero, perché i giovani portano con loro valori diversi e una maggiore intraprendenza. Ma qui, se hai delle iniziative allora significa che hai delle ambizioni; e se hai delle ambizioni, sei una minaccia per il Paese. Ed questa mentalità ad imbrigliare lo sviluppo del Nagorno Karabakh». A Stepanakert come altrove, in mancanza d’apertura e senza il riconoscimento della comunità internazionale, i salari rimangono bassi, le prospettive poche, i luoghi di ritrovo inesistenti e l’emigrazione, soprattutto giovanile, è diventata una costante. Con le statistiche che misurano i flussi migratori solo in base alla perdita della cittadinanza, invece di rilevare sul nascere i primi segni di un conflitto generazionale.

Con Haik raggiungiamo lo Stepanakert Press Club (Spc), un’associazione nata nel 1998 per la promozione della libertà d’informazione. Per quattro anni, dal 2004 al 2008, il Press Club ha dato alle stampe Demo, il primo quotidiano indipendente del Karabakh, mentre oggi cura l’edizione di Analyticon, un magazine in tre lingue realizzato in collaborazione con l’Unione Europea e diffuso in tutta la regione del Caucaso. È qui che incontro Masis Mayilian, presidente del Council for Foreign and Security Policy, partner del Press Club e molto altro. Nel 1993 Masis ha fatto parte del team di negoziatori che ha concluso il cessate il fuoco e fino al 2007 è stato vice ministro degli Esteri. «Dopo la fine del conflitto una delle priorità principali è stata la costruzione del Nagorno Karabakh come amministrazione statale – spiega Mayilian – Abbiamo creato il migliore esercito della regione, una struttura di governo e abbiamo strenuamente difeso la nostra indipendenza. Certo, molte cose sono ancora da fare: c’è bisogno di maggiore democrazia, di più diritti umani, di media più indipendenti. Ma in ogni caso la nostra situazione non è certo paragonabile a quanto accade oggi in Azerbaigian».

Mayilian non si riferisce solo al caso Safarov, l’ufficiale azero proclamato eroe nazionale dopo aver ucciso nel sonno, a colpi d’ascia, un militare armeno durante un’esercitazione Nato. In Azerbaigian il presidente Aliyev agita lo spettro del Nagorno Karabakh per mantenere alta la mobilitazione all’interno del Paese. Inoltre, un’intensa attività di lobbying internazionale, insieme alla scelta rilevata da molti esperti di destinare il 20% del Pil all’acquisto di armi e altre spese militari, lasciano pensare che la minaccia di una nuova guerra non sia così lontana. Secondo i dati del Ministero della Difesa karabakho, nella sola settimana tra il 14 e il 20 ottobre sono state 250 le infrazioni al cessate il fuoco. La tensione è alta, soprattutto nelle province di Martakert e Hadrut, anche se le violazioni sono per ora classificate a bassa intensità.

«Non è comunque facile convivere tutti i giorni con le minacce di un sistema autocratico – commenta Vahram Soghomonyan, ricercatore in Scienze politiche e autore di numerosi articoli sui problemi della regione – Ma c’è una nuova generazione che sta nascendo, connessa con i cambiamenti che vengono dal Medio Oriente e per il Nagorno Karabakh l’argomento più forte contro il petrolio azero può essere solo la democrazia». Anche Larisa Alaverdyan, la direttrice dell’Istituto di Scienze politiche e Legge all’Università Russo-armena di Yerevan, è certa che «essere liberi significhi essere sicuri», e che per garantire la sicurezza del Karabakh gli ideali democratici siano importanti quanto l’esercito. Così lo scorso luglio, alle ultime elezioni presidenziali, una sconfitta ha fatto invece segnare un’importante vittoria. Le votazioni hanno confermato il Presidente uscente Bako Sahakyan, ma nonostante il nemico alle porte il candidato delle opposizioni, Vitaly Balasanyan, ha ottenuto oltre il 30% dei consensi. Un risultato raggiunto anche grazie ai voti delle giovani generazioni. «In vent’anni d’indipendenza si tratta di un successo senza precedenti – chiarisce Alaverdyan – soprattutto perché stiamo parlando di paesi ex sovietici, dove tutti erano felici di ogni cosa. Non voglio cedere a facili entusiasmi, ma questa è la prova che il Nagorno Karabakh non è una natura morta, e che non esiste solo sulla carta. Ci potranno essere ingiustizie e disuguaglianze, ma il pericolo di un’attitudine totalitaria è ormai alle spalle, perchè i cittadini iniziano ad essere più consapevoli e dimostrano di avere una maggior coscienza civile».

Per un’armena di Baku come Larisa Alaverdyan, la questione del Karabakh assume un’importanza tutta particolare. Nella marshrutka la musica pop sembra scandire senza sosta lo scorrere dei tornanti, e presto il profilo di Stepanakert si perde all’orizzonte. Con una mano al volante e l’altra incollata al cellulare, l’autista divora chilometri mentre pianifica i suoi piccoli commerci. Il corridoio di Lachin, soprannominato dagli Armeni del Karabakh “la strada della vita”, si arrampica per chilometri prima di scendere verso Goris e la frontiera. Durante la guerra questa era l’unica via di comunicazione con Yerevan e, per la sua importanza strategica, è stata al centro di numerose battaglie. Oggi Lachin ha cambiato nome e si chiama Berdzor, ma è rimasta la principale via di collegamento con l’Armenia. L’aeroporto di Stepankert è stato infatti inaugurato lo scorso 2 ottobre, ma non può essere ancor utilizzato. Secondo il governo azero, i voli rappresentano una violazione del proprio spazio aereo, e Baku ha minacciato quindi di abbatterli. «Per l’Azerbaigian il conflitto è un ostacolo alla democrazia – evidenzia Alaverdyan – Ma se un Paese vuole essere democratico, allora deve essere pronto a tutto. E se il piccolo Nagorno Karabakh è un freno per l’Azerbaigian, il grande Azerbaigian non è certo un ostacolo per il Karabakh». 

Fonte: http://www.linkiesta.it/nagorno-karabakh